Breve storia delle mie dimissioni

Nell’anno in cui le dimissioni sono divenute un genere letterario, un capitolo (anzi due) del romanzo collettivo La Grande Dimissione.

Annalisa Monfreda
9 min readDec 22, 2021

1. La storia pubblica

Mentre presentavamo assieme il suo ultimo libro, una mia amica ha detto: «Le dimissioni sono sempre un fallimento». È stato come un colpo sferrato dalla spada di Gaemon Ishikawa, un fruscio d’aria, poi due pezzi di me sono finiti in terra e sono rimasta a guardarli per giorni, settimane.

Avevo appena rassegnato le mie dimissioni dopo nove anni da direttrice di Donna Moderna, ero in preda a un’eccitazione febbrile, una lenta e continua eruzione di idee che non si arrestava neanche di notte, costringendomi ad alzarmi per prendere appunti, quando all’improvviso la vera natura di ciò che stavo vivendo mi è apparsa davanti. Un fallimento che aveva già indossato i panni a me più familiari: quelli del viaggio, dell’impresa, della scoperta.

La storia, però, ama rintanarsi nelle lacrime, nelle mattine in cui fatichi ad alzarti dal letto, nei conti che non tornano, nei “Non ce la farò” che ti abbaiano dentro. Ed è ciò che intendo raccontare adesso.

Quello che abbiamo provato a fare per nove anni, assieme a una squadra eccezionale, è garantire sul lungo periodo la sostenibilità economica di un brand giornalistico glorioso come Donna Moderna, affetto come tutti dal calo sia di copie vendute sia di pagine pubblicitarie.

I primi anni sono stati i più facili: siamo riusciti a tagliare i costi del privilegio (macchine con autista, mazzette di giornali che rimanevano intonse) senza intaccare la sostanza, riuscendo persino a ricavare il necessario per investire in contenuti, sperimentazioni, errori necessari.

Dopo due anni vissuti con questa rendita, la sfida si è fatta più complessa. Bisognava riuscire a portare la qualità dei contenuti giornalistici, pilastro del brand, su tutti i canali a disposizione, che aumentavano a un ritmo forsennato e non avevano ancora una forma di monetizzazione certa: il web, i social, l’audio, le tv sul digitale terrestre. È stato necessario riorganizzare il modo in cui veniva prodotto il giornale per liberare energie e tempo da dedicare a questi canali. Siamo stati i primi ad applicare il metodo agile nel mondo giornalistico e a sperimentare la leadership diffusa. In questo modo siamo riusciti a produrre serie tv, longform digitali, libri, documentari, podcast. L’errore che ho fatto è stato incaponirmi nell’idea che le singole persone potessero lavorare su più canali (carta, web, social) invece di costruire da subito una verticalità, una specializzazione. Temevo che si replicasse il male che attanaglia gran parte delle redazioni: l’assenza di comunicazione tra i vari canali. Temevo che chiedere alle persone di specializzarsi in qualcosa che magari avremmo smesso di fare dopo sei mesi o un anno, le avrebbe destabilizzate. Ho corretto l’errore negli anni a venire ma senza il necessario coraggio. Non ho dirottato sufficienti risorse sui nuovi canali, credendo che ci dovesse essere corrispondenza tra costi e fatturato. Oggi credo che ciò che fattura di più (nel nostro caso, la carta) non debba necessariamente costare di più. E che anzi debba servire a finanziare l’innovazione, il futuro.

Tre anni dopo è stato chiaro che, per quanti canali riuscissimo a sviluppare, col contenuto e basta non si arrivava da nessuna parte. Bisognava ideare nuove linee di business che non fossero le copie vendute e la pubblicità. Provare a creare una relazione nuova con le lettrici che fosse profittevole. È stato il momento più appassionante. A partire dall’unicità del nostro modo di fare giornalismo e dal legame fortissimo con la community, abbiamo disegnato corsi di formazione, spettacoli teatrali, addirittura gruppi di corsa e viaggi estremi. Le lettrici, per la prima volta, pagavano qualcosa che non fosse un giornale e sembravano grate di farlo. Idee buone e innovative, ma l’errore che vedo oggi con lucidità è non averle gestite con la mentalità di una start-up, ovvero bassi costi di produzione e viraggio immediato di fronte a ciò che non funziona. Avere le spalle coperte da un’azienda solida come Mondadori, che ti permette di sperimentare, è un grande privilegio, ma cela questa insidia. Non ne sono stata consapevole fino a quando queste attività, alla prova della modellizzazione, sono risultate non profittevoli. Avevamo giocato male una partita che poteva essere vinta.

Negli ultimi due anni c’è stato altro a cui pensare, una pandemia da attraversare come esseri umani e come giornalisti col compito di informare, uno smartworking da impostare.

È stata l’occasione per ragionare sugli errori ma anche sul senso della nostra professione. Forse non ho la giusta distanza per fare autocritica anche su questo, ma oggi credo che Donna Moderna abbia espresso i migliori valori del giornalismo. Innanzitutto, usare il proprio spazio, quello occupato nelle edicole e nelle case degli italiani, per fare spazio ad altri, per dare voce a chi normalmente non ne ha. Non solo portando in copertina chi non ha mai pensato di poterci finire, ma lasciando che le parole e i pensieri di queste persone mettessero in discussione il nostro stesso ordine del mondo. E poi, chiedersi sempre quale impatto avrà la pubblicazione di una storia e ritrovarsi a decidere di non farlo benché tutti ne parlino. Non cercare la buona notizia a tutti i costi, ma non arrendersi di fronte alla cattiva notizia finché non abbiamo trovato una via d’uscita, una possibilità, una soluzione, uno scorcio di cielo da offrire a chi legge. Sforzarsi non solo di essere comprensibile, ma di dare al lettore una buona motivazione per leggere ogni singolo articolo. Trasformare la conversazione con la community in contenuto e sperimentare ogni forma di narrazione, dai numeri ai fumetti.

Ho sempre pensato che bisognasse dare ai lettori, non solo ciò che vogliono, ma ciò che non si aspettano, ciò di cui non sanno di aver bisogno.

Il 31 dicembre 2021 finisce la mia storia con Donna Moderna ma non quella del giornale che continua con un nuovo editore che ha già compiuto altri piccoli miracoli e a cui auguro di portare a segno anche questo.

La frase che ho sentito più spesso in questi giorni: “Ah, ma allora avevi un piano B!”. Mi sono sempre detta che avrei dovuto avercelo, la sua mancanza era uno dei miei sensi di colpa maggiori. Oggi capisco che non avevo un piano B, perché ho sempre e solo avuto un piano A. Che evolve in virtù della consapevolezza degli errori commessi, ma che rimane essenzialmente intatto: produrre contenuto di qualità, far sì che quel contenuto abbia un impatto reale sulle persone e che possa continuare a essere prodotto perché economicamente sostenibile. Quindi no, non ho un piano B. Vado avanti col piano A.

2. La storia privata

Ho letto di sfuggita un post che non ho più ritrovato. Il succo era che la Grande Dimissione è tutta una storia di privilegio e di privilegiati. Sono totalmente d’accordo. Ma è anche una storia di perdita del privilegio. E questa, inutile dirlo, è la parte più interessante.

Un giorno, uscita da un negozio con l’oggetto che avevo intenzione di comprare e il broncio di mia figlia Decenne per il capriccio che mi ero rifiutata di assecondare, ho avuto la malaugurata idea di farne un momento educativo. «Sai che non mi sono mai piaciuti i capricci», le ho detto, «ma adesso ancora meno. Dobbiamo fare tutti uno sforzo per risparmiare. E tu devi ingaggiare battaglie solo per ciò che desideri davvero».
«Quella che fa i capricci in questa famiglia sei tu», mi ha risposto furente di rabbia. «Sei tu che lasci un lavoro per inseguire le tue fantasie».

Credevo fosse più semplice, lo ammetto. Mio padre aveva provato a farmelo capire, ma io avevo liquidato il suo file excel dicendogli che la mia decisione non era il frutto di un calcolo sbagliato. Non pensavo di ritornare in una situazione economica comparabile a quella del mio precedente lavoro. Stavo scegliendo consapevolmente una nuova esistenza. Ed era vero. Solo che mi ero concentrata su cosa avrebbe significato per me, non per due ragazze sulla soglia dell’adolescenza. Le abbiamo cresciute viaggiatrici, allenate all’imprevisto. Ho pensato che sarebbe bastato utilizzare una narrativa familiare, quella dell’avventura, della scoperta, per portarle a bordo della mia scelta con positività. E in parte ha funzionato. Le nostre conversazioni sull’argomento sono appassionate esplorazioni dell’orizzonte di opportunità che la mia scelta apre. Ci divertiamo ogni giorno a seguire un itinerario diverso e a immaginare cosa succederebbe. Adoro le loro idee e le interpello spesso nel merito dei miei progetti. Ho sinceramente creduto che sarebbe filata liscia, ma la dura realtà mi ha colto di sorpresa all’uscita da un negozio: le ho strappate alla sicurezza e le ho trascinate con me nel mondo dell’imprevisto con un biglietto di sola andata. Hanno tutte le ragioni di essere spaventate e arrabbiate.

Al privilegio materiale, in questa storia, si associa anche un privilegio immateriale. La cui rinuncia mi è sempre parsa la più indolore: non vedevo l’ora di tornare a giocare nel campo dell’autenticità, senza dovermi chiedere ogni volta la vera natura delle relazioni che intrecciavo. Anche qui, però, avevo fatto male i conti. Quel privilegio immateriale non apparteneva solo a me, era un bene collettivo. L’ho capito questa estate, quando ho cominciato a rivelare le mie intenzioni alle amiche più care. Il prestigio del mio ruolo, notevolmente sovrastimato rispetto al suo valore reale, figlio dell’immaginario associato alla professione di direttrice di un settimanale femminile, era un motivo di orgoglio per loro così come per i miei parenti, i miei compagni di ballo, di avventure estreme, persino per quelli del liceo, per i miei prof, per gli abitanti del mio paese di origine, per il parroco. Non c’è uno di loro che un giorno non abbia detto: la direttrice di Donna Moderna io la conosco, è una mia amica, l’ho vista crescere. Tutte le volte che in questi anni mi hanno celebrato o premiato, riempiendo la mia libreria di ogni sorta di targa, o mi hanno invitato nelle scuole a ispirare i bambini, era perché avevano fatto di me un simbolo. Rappresentavo la possibilità concreta che anche una giovane donna del Sud, con un’attitudine solitamente poco associata al successo, potesse riuscire a emergere in quello che sembra un mondo competitivo, invece è il più meritocratico che io conosca. Sapevo che non avrei faticato a staccarmi dai benefit come feste, inviti, regali. Ma oggi so che sarà difficilissimo rinunciare a quegli sguardi pieni di orgoglio e di riconoscenza. E so che farò di tutto per sentirli posare nuovamente su di me. Per meritarli ancora.

E veniamo all’ultimo privilegio, quello che ho. Non avrei mai compiuto questo passo se stessi giocando la partita da sola. Non si tratta solo di essere in coppia, ma di avere una relazione che, per quanto imperfetta e migliorabile su un’infinità di aspetti, assomiglia tanto a una squadra. Ecco, far parte di una squadra è la condizione psicologica ideale per affrontare il rischio. Ci è già successo in passato. Ho convinto lui a lasciare una situazione lavorativa tossica, l’ho motivato a prendersi il tempo per studiare, a non affannarsi a cogliere la prima occasione ma ad avere la pazienza di aspettare quella giusta. Per lui è stata dura da accettare, ma ha funzionato. Adesso sta facendo lo stesso con me. Ogni mattina ripulisce il campo della mia mente dai residui di sensi di colpa e paure lasciati dalla notte. Sa che quella è la rampa di lancio da cui un giorno o l’altro dovrò decollare e lui si è preso in carico la sua manutenzione. Mi sprona a studiare, a progettare, sfida le mie idee come farebbe con quelle dei suoi clienti, perde la pazienza quando io perdo la fiducia. Il vero senso di giocare in squadra è che giochi anche quando sei in panchina. Giochi anche mentre ti riposi e ti ricostruisci i muscoli. E questo è il vero privilegio che oggi mi riconosco: poter vivere questa scelta come una opportunità di ridisegnare il lavoro, l’esistenza, i miei stessi sogni.

Mentre progetto, prototipo, fallisco, riprogetto, riprototipo, rifallisco, continuo a scrivere i miei Appunti settimanali qui, in formato newsletter.

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Annalisa Monfreda

Co-founder di Diagonal. Qui parlo di giornalismo, leadership e innovazione