Che libri proporre a una figlia femmina
È il dilemma che mi pongo ogni volta che la Novenne si avvicina alla grande libreria e mi chiede: “cosa posso leggere adesso?” Qui le mie riflessioni supportate dai fumetti di Claudia Flandoli. Più una certezza: la buona letteratura non è né maschilista né femminista.
Fuori la pianura e l’autostrada, che sfumano l’una nell’altra nella calura estiva. Dentro la voce di Bianca Pitzorno che legge Streghetta mia, il suo capolavoro. Non avevamo ancora imboccato l’autostrada che le due passeggere hanno reclamato l’unico rimedio in grado di rendere sopportabile la lunga traversata in auto da Milano a Fiume: un audiolibro.
Bianca Pitzorno racconta del disgustoso Asdrubale Tirinnanzi, avido e senza cuore, che rapisce la bellissima Sibilla e le chiede di sposarlo.
“Ma ho solo 14 anni” risponde lei. “Devo finire la scuola. Mi voglio laureare in archeologia spaziale…”
“Sciocchezze!” le risponde Asdrubale. “Le ragazze non devono perdere tempo con lo studio! Devono solo pensare a sposarsi al più presto. Possibilmente con un giovanotto molto ricco. Come me.”
C’è stato un tempo in cui l’obiettivo che la famiglia poneva a una donna era solo un buon matrimonio; la lettura, la musica, l’arte andavano coltivate solo affinché la donna risultasse più desiderabile e conquistasse un buon partito; in forme più sottili, e con i necessari aggiornamenti, questo pensiero è ancora vivo in una parte della nostra società; e negandogli cittadinanza, senza tentare di comprenderlo, si rischia di restarne vittime.
La storia insegna che la retromarcia è in agguato, che nessun progresso è al sicuro finché ciascun beneficiario non se ne fa strenuo difensore pur riconoscendo, in se stesso, la pulsione a tornare indietro.
È trascorso poco tempo da quando, in un luogo non lontano da qui, la pellicola della storia si è riavvolta improvvisamente.
Tutto ciò era accaduto nel giro di pochi anni. Ed era successo perché le donne stesse, senza rendersene conto, lo avevano permesso.
Azar Nafisi, docente universitaria vissuta a Teheran a cavallo delle due epoche, nel 1995 riunì in un gruppo di lettura clandestino le sue studentesse migliori, alcune profondamente religiose, altre laiche, altre ancora incerte. Non leggevano saggi femministi. Non usavano la letteratura per motivarsi alla ribellione. Leggevano i grandi romanzi ottocenteschi, vietati dal regime, per allenarsi all’empatia. Per penetrare la psicologia dell’oppresso e dell’oppressore.
La grande letteratura è il tramite per capire il ruolo che la donna ha avuto nelle società passate e quello che ha in molte società contemporanee. Per accorgersi di come, da una parte fosse costretta in quel ruolo, ma dall’altra “danzasse col suo oppressore” e si rendesse complice della sua stessa sottomissione, e di come noi continuiamo a replicare alcuni schemi mentali e meccanismi psicologici tipici di chi è subordinato a qualcun altro.
Oggi penso che per l’educazione di una giovane donna europea ci voglia lo stesso repertorio di letture che Azar Nafisi proponeva alle sue studentesse oppresse dal regime islamico e che io mi ero negata perché ritenevo non avessero più nulla da dire alla mia generazione.
È presto per consigliare Jane Austen alle mie figlie, ma c’è una grande letteratura ottocentesca per ragazzi che, tra le altre cose, può mostrare il percorso compiuto dalle donne e allenarle a non darlo per scontato. Periodicamente questa letteratura finisce sotto processo, accusata di maschilismo e di proporre modelli convenzionali. E non c’è dubbio che, salvo
rare eccezioni, le avventure, il coraggio e l’esplorazione siano appannaggio dei personaggi maschili, mentre l’attesa, l’accudimento e la rinuncia spettino ai personaggi femminili. Ma ben presto ho imparato a diffidare dei contabili della letteratura. Di quelli che calcolano le quote rosa o azzurre. O che giudicano le trame e le scelte dei personaggi come se si trattasse di una galleria di modelli edificanti a cui ispirarsi. La buona letteratura non è né maschilista né femminista.
Quando ho letto Ventimila leghe sotto i mari assieme alla Novenne, mai una volta l’ho sentita in dubbio sul fatto che, benché non ci fossero donne nella spedizione, lei potesse identificarsi con il capitano Nemo o il professor Aronnax, pur rimanendo femmina.
Confesso, invece, un attimo di turbamento durante la lettura di Pattini d’argento. Sul finire del libro, un dialogo tra mamma e figlia suona più o meno così:
Ma cosa può un romanzo rispetto alla quotidianità di segno totalmente opposto che vivono nella nostra casa? E che valore ha invece quel dialogo tra mamma e figlia nell’illuminare il meccanismo della sottomissione?
Di classico in classico, è arrivato il momento di Piccole donne, uno dei romanzi che viene periodicamente additato come antifemminista perché le quattro sorelle, cresciute badando a loro stesse e guadagnandosi da vivere, coltivando sogni normalmente preclusi al genere femminile, finiscono tutte per fare un buon matrimonio e vivere all’ombra dei loro mariti. Ma davvero leggiamo Piccole donne per capire se è giusto o sbagliato sposarsi? Se è giusto o sbagliato rinunciare al proprio sogno di bambina? Centocinquant’anni dopo essere stato scritto, questo romanzo ancora oggi ci parla di un mondo tremendamente contemporaneo, dove tutti, uomini e donne, crescendo, finiscono per rinunciare ai propri sogni. Il finale ci fa arrabbiare.
Ma a che servono i romanzi se non a questo? A proporci un modello da seguire o a turbarci, sconvolgerci, farci riflettere?
La stessa Anna di Green Gables, quella dai capelli rossi, ribelle fin dalle prime pagine del libro, alla fine del romanzo fa una scelta di sacrificio. Invece di continuare a studiare o di diventare un’attrice, decide di tornare nel suo piccolo villaggio a fare la maestra per stare vicino all’anziana Marilla, ormai rimasta sola.
E quindi, mettiamo all’indice questo romanzo perché insegna alle donne la rinuncia? Oppure lo facciamo leggere alle nostre figlie perché pagina dopo pagina costruisce una delle personalità più complesse e contraddittorie della storia della letteratura, capace di tenere assieme frivolezza e profondità, passione per i vestiti e sensibilità artistica. E perché ci conduce, per mano, dentro la complessità di una scelta, indipendentemente dal genere di chi la compie?
Col tempo ho imparato a non aver paura dei libri e a esplorare, attraverso le loro pagine, la complessità dell’animo umano e delle scelte fatte dalle persone.
Proprio come era solito fare, letteralmente, il topo di biblioteca di Bianca Pitzorno. Il quale, però, con l’ingrandimento dell’edificio e lo svuotamento delle cantine, si ritrovò improvvisamente senza cibo e gli toccò emigrare nei sotterranei di una banca, cambiando la dieta a cui era abituato dalla nascita.
Questo articolo è una rielaborazione a fumetti del capitolo 3 di Come se tu non fossi femmina (Mondadori, 2018). I fumetti sono di Claudia Flandoli.