Quattro lezioni per aspiranti innovatori

Come guidare il cambiamento e fare innovazione

Annalisa Monfreda
7 min readJun 22, 2016

Di Annalisa Monfreda

Quando pensi che un prodotto o un processo andrebbero innovati, magari hai anche un’idea di come cambiarli, ma ti rendi conto che da solo non ce la puoi fare... Ecco, è lì che ti trovi di fronte alla sfida più bella: guidare il cambiamento. Convincere i tuoi capi della necessità di quell’innovazione. Motivare il gruppo a crederci e a metterla in atto.

Domitilla Ferrari mi ha chiesto di parlarne a una delle sue “Colazioni +1” e questi sono gli appunti che ho preso per l’occasione. Parlano di 4 mantra-tormentone sul cambiamento e di cosa succede quando diventano azione.

1. Per guidare il cambiamento, devi essere il cambiamento

Di questa parafrasi di Ghandi ho sempre pensato di essere il portabandiera. Direttrice 30enne, sostenitrice della gentilezza come strumento di leadership, senza auto aziendale né autista né fedelissimi ultrapagati al seguito. “Chi più di me è il cambiamento?”, mi dico. Pensiero scivoloso. Perché in questo ambito non si può mai vivere di rendita. E così un bel giorno arriva il ruzzolone.

Succede quando, nel mezzo di un processo di riorganizzazione, viene modificato il layout degli uffici, ossia la disposizione delle scrivanie. L’intento è restituire lo spazio all’idea originale dell’architetto Oscar Niemeyer, che aveva previsto un open space. Nel corso degli anni, un alveare di pannelli verdi era subentrato a frazionare la superficie disponibile, garantendo a ciascun giornalista una “cella” in cui esercitare il proprio diritto alla privacy e alla concentrazione. Soluzione efficace finché sono esistiti ruoli chiusi e definiti, una distribuzione del lavoro immutabile e sacrosante certezze su ciò che si sarebbe fatto ogni giorno.

A un certo punto, però, il nostro modo di lavorare è diventato liquido, il palinsesto della giornata ha cominciato a ridisegnarsi con l’avanzare delle ore, lo scambio tra i colleghi è divenuto fondamentale e, assieme ad esso, la necessità di imparare un lavoro nuovo dai vicini di scrivania. L’open space è parsa la soluzione più facilmente applicabile al tipo di edificio che avevamo a disposizione.

Il malessere generale per questo cambiamento l’avevo messo in conto. A peggiorarlo, però, c’è stata una componente che non avevo considerato. La disposizione della mia scrivania non era cambiata. Io avevo mantenuto uno spazio parzialmente chiuso da librerie e pannelli.

Io, per una volta, non ero il nuovo ma il vecchio. E questo non mi veniva perdonato.

Così, ho iniziato a ragionare su come aprire la mia postazione. Nel frattempo, potevo fare solo una cosa: uscire dal mio spazio e vivere l’open space. Ho preso l’abitudine di sedermi per un’oretta al giorno, con il mio portatile, nell’area web, per imparare dalle colleghe le cose che ancora non so. E ho iniziato a prenotare, quando ho bisogno di particolare concentrazione, il piccolo ufficio chiuso che abbiamo adibito a questo scopo. Insomma, ho usato lo spazio così come avrei voluto che lo usassero loro.

Non è molto, ma se non altro ho imparato una lezione. Questa:

2. Il cambiamento deve venire dal basso

È un principio sacrosanto. Ma se si opta per questa strada, bisogna mettere in conto che sia la meta sia il tragitto per arrivarci saranno diversi da quelli che avevamo in mente. Ed ecco la piccola storia che mi ha insegnato questa grande verità.

Quando abbiamo iniziato a ripensare l’organizzazione del lavoro, io avevo un obiettivo (scomporre le gerarchie per liberare la creatività) e una vaga idea di come ci si potesse arrivare. Poco importava: i consulenti che dovevano aiutarmi nell’impresa mi hanno chiesto di fare un passo indietro e di mettere le chiavi del cambiamento nelle mani della redazione, praticamente di prendermi una vacanza.

Dopo settimane di lavoro, i colleghi mi hanno presentato un obiettivo leggermente diverso dal mio, poiché includeva i loro bisogni: essere creativi sì, ma anche avere un flusso impeccabile che eliminasse le perdite di tempo. E soprattutto, mi hanno proposto una strada per raggiungere l’obiettivo che era l’opposto di ciò che avrei immaginato. Prevedeva strumenti razionali che non avrei mai potuto concepire, metodi di lavoro ben lontani dal mio modo di essere.

Mi sono fidata, ho dovuto fidarmi, e ho fatto bene: sia la meta sia la strada si sono rivelate migliori di quelle che avrei potuto proporre io.

Ma come si fa a dare le chiavi del cambiamento al gruppo di lavoro in modo efficace? Non ho la risposta definitiva: vi dico tre cose che ho capito.

A) Bisogna saper interrogare (e ad ascoltare) i componenti del gruppo, facendo loro le domande giuste.

Per esempio, se vuoi che i giornalisti si sentano coinvolti nel restyling del loro giornale, non puoi domandargli: cosa cambieresti, cosa ti piace, cosa non ti piace? Ma devi chiedere loro di descrivere il lettore, di raccontare il suo stile di vita, la sua giornata-tipo, i suoi consumi e poi di provare a immaginare che tipo di giornale gli piacerebbe leggere.

Allo stesso modo, se vuoi cambiare il layout degli uffici, non puoi chiedere: come disporresti la tua scrivania? La risposta sarebbe: lato finestra, spalle al muro e a un anno luce dalla collega che mi sta antipatica. Invece devi interrogarli sulle criticità del flusso di lavoro e riuscire a capire come la riorganizzazione degli spazi potrebbe risolvere alcune di quelle criticità.

Faticoso? Sì, certo. Questo è proprio il secondo punto.

B) Bisogna far sì che il gruppo lavori duramente sul cambiamento e che si metta in gioco.

Quando abbiamo riorganizzato Donna Moderna, i miei colleghi hanno trascorso giornate intere chiusi in una stanza a mappare flussi, discutere proposte, cercare soluzioni. Tutti loro sono divenuti change leader, paladini dell’innovazione su cui tanto hanno sudato e nemici della forza di inerzia che ci spinge a tornare a fare le cose come si sono sempre fatte.

C) Bisogna fare il check up al cambiamento.

Ogni mese, noi ci ritagliamo due ore e mezza di riunione plenaria per capire lo stato di salute delle innovazioni che abbiamo operato. In quell’occasione, coloro che non condividono un cambiamento (e quindi istintivamente lo sabotano) sono costretti a venire allo scoperto, ad argomentare, a elaborare le loro obiezioni per sottoporle ai colleghi. Non c’è spazio per cordate sotterranee. Davanti al gruppo ci si prende la responsabilità di criticare e l’impegno a migliorare.

Perché il cambiamento funzioni, deve essere faticoso anche smontarlo.

3. Il cambiamento deve essere continuo

La fatica del cambiare sta nel fatto che per tanti anni si è sempre fatto così. Ecco perché è importante mettere in moto la macchina del cambiamento e non spegnerla più.

A tal fine, è molto utile iniziare a raccontare il cambiamento in modo diverso, smitizzarlo, privarlo di enfasi.

Nelle aziende, di solito, è l’esatto opposto. Le riorganizzazioni sono precedute da mesi di voci di corridoio. Poi un giorno arriva finalmente l’Ordine di Servizio, ma siccome il cambiamento cade dall’alto, per almeno un altro mese rimane solo sulla carta, come una nuova legge in attesa di decreti attuativi. Quando, finalmente, ognuno è al suo nuovo posto e ha capito cosa deve fare, tempo sei mesi e si cambia di nuovo.

L’errore, qui, non è nei sei mesi trascorsi tra un cambiamento e l’altro, bensì in tutte le fasi precedenti.

I miei colleghi mi dicono che la faccio troppo facile. Ma deve essere facile.

Ogni cambiamento è la tappa di un viaggio: nessuno deve disfare le valigie e mettersi comodo. Ma occorre rimanere pronti a prendere l’aereo successivo.

4. Il cambiamento deve portare a migliorare la propria vita

Ci hanno insegnato che sul lavoro bisogna mettere il bene dell’azienda davanti alla felicità personale. Ma chi ha detto che le due cose debbano essere in conflitto?

Sono convinta che se dessimo diritto di cittadinanza al nostro benessere, il cambiamento sul lavoro sarebbe molto più facile ed efficace. E gli uffici sarebbero posti bellissimi.

C’è una frase del Piccolo Principe che rende bene l’idea:

Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave.

Il mio primo giorno di lavoro ho chiesto ai colleghi qual era il cambiamento che desideravano di più. Mi hanno risposto: parlare con i lettori non solo attraverso la carta ma anche tramite il web e i social network. Un’opportunità di cui erano stati privati da un’organizzazione che prevedeva la netta separazione dei canali. Quel loro desiderio ancora oggi è il mio faro sulla strada dell’integrazione carta-digital. E quando, esausti dal troppo lavoro, mi chiedono di concentrarsi per un po’ solo sulla carta, mi basta rievocare loro quel desiderio espresso appena 3 anni fa per vederli ritrovare le energie e gli stimoli per andare avanti.

Passando alla sfera privata, uscire dall’ufficio sufficientemente presto per “vivere” è un altro obiettivo bellissimo. Non mi vergogno a dire che è stato uno dei fari che ha guidato i miei colleghi quando si è trattato di ridisegnare i flussi organizzativi di Donna Moderna. E continua a essere il campanello d’allarme che ci segnala la presenza di un problema e ci stimola a ragionare su un nuovo piccolo cambiamento.

È che le aziende non ci credono tanto. Ma cercando la felicità delle persone, si arriva anche a trovare la strada migliore per il cambiamento.

Ora, per concludere, ecco come non si fa il cambiamento:

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Annalisa Monfreda

Co-founder di Diagonal. Qui parlo di giornalismo, leadership e innovazione